Il Gruppo di Scicli a New York

Desiderio. Passione. E rigore. Quello espressivo, innanzi tutto, ma anche morale, etico, di chi concepisce l’arte come un impegno che trasforma l’etica in estetica, che considera la Bellezza una categoria dello spirito, prima ancora che una suprema gioia per gli occhi. E qui si potrebbe già chiudere la presentazione del Gruppo di Scicli al suo, immagino emozionato, debutto oltre oceano. Si potrebbe concludere qui, dicevo, se non fosse che considero importante “raccontare” quale e quanta valenza riveste questo “manipolo di fratelli”, per dirla con Shakespeare (Enrico V), non solo nella scena artistica internazionale d’oggi, ma in quella ormai consistente porzione di storia dell’arte recente che dal 1980 ad oggi li ha visti determinati, saldi ma non immobili portatori di valori che coincidono con la tradizione e la storia italiana del “fare arte”.

Nacquero, i fratelli di Scicli, in un periodo nel quale l’onda lunga, tutta italianissima, della contrapposizione dei linguaggi e degli stili pittorici era ancora ben lungi dall’essersi sopita. Loro, provenienti dagli inferni metropolitani e ritirati nel loro felice Eden ibleo, aristocraticamente incuranti delle polemiche ma concentratissimi su “quel qualcosa che sta fra le tela ed il colore”, per rubare la definizione di Pittura a Picasso, attraverso un costante ed intenso impegno (politico, sociale, ambientale e, naturalmente, artistico) hanno saputo, caso unico in Europa, riallacciare le trame allora sfilacciate del dialogo fra modernità e tradizione, rinnovando lo spirito espressivo ed etico del dipingere, prima ancora che preoccuparsi di essere moderni ad ogni costo. Un caso unico in Europa, che poco o nulla ha da spartire con gli omologhi spagnoli e norvegesi (la “Scuola di Madrid” del sommo López-García, intrisa di realismo esitenziale, quella di Chincón del cileno Muñoz Vera o il cenacolo/setta del profeta/pittore norvegese Odd Nerdrum). Una unicità che nasce da un profondo senso della Natura, ma, soprattutto, da un dialogo paritetico, da una sorta di democrazia del pensiero certamente figlia delle culture che in Sicilia si sono incontrate e fuse, quella greca in primis. Attorno alle figure titaniche (per vivacità intellettuale e rigore morale, oltre che per forza espressiva) di Piero Guccione e Franco Sarnari si sono raccolti altri discepoli/maestri, legati ai primi più da una condivisione etica che da altrimenti sterile manierismo. Guccione e Sarnari erano e rimangono i due dioscuri dell’arte italiana più autentica. Ieratico e spirituale Guccione, che cerca il segreto della luce con l’impegno ed il coinvolgimento spirituale di un monaco Zen; più inquieto e per certi aspetti coraggioso Sarnari, indagatore instancabile degli abissi dell’assoluto. Due strade solo apparentemente opposte ma che nascono dalla medesima necessità espressiva, dal medesimo desiderio, per l’appunto, di sondare il mistero del visibile per rivelare l’essenza dell’altrove. A loro, da subito, si è unita la marsigliese Sonia Alvarez, ricca di un’espressività insieme nordica e mediterranea (nata da genitori greci ha lungamente vissuto in Marocco e Olanda), che, dopo tanto peregrinare, nella luce di quel lembo estremo di Sicilia ha ritrovato la sua Itaca e quelle atmosfere che le hanno consentito di sintetizzare una certamente straordinaria educazione visiva, riscaldando l’intimismo di un Hammershøi e Vermeer con  un inatteso quanto seducente colore.

Carmelo Candiano, fino ad oggi da me conosciuto solo come scultore senza tempo, sebbene dedito alla vivificazione della pietra ha sempre dimostrato una grande sensibilità pittorica. Lo rilevava anche Paolo Nifosì in una bella presentazione del 1999. La mostra newyorkese mi consente per la prima volta di conoscere e confrontare i suoi due linguaggi espressivi: le pietre scolpite provenienti da un passato futuribile e la riflessione metafisica contenuta in due splendide nature morte, nelle quali l’utilizzo dei colori ad olio viene portato agli estremi: raggrumato, materico e tridimensionale quanto trasparente, pastelloso, misterioso.

Franco Polizzi ha per me sempre rappresentato l’anima più espressivamente inquieta del Gruppo, decisamente più intimamente affine, benché formalmente autonomo, a Sarnari che allo “zen” Guccione; un’inquetudine perfettamente colta da Guido Giuffré, storico “storico” dei fratelli iblei, che definì lapidariamente la sua pittura “calda”. Ora, a distanza di anni, ritrovo un Polizzi sì egualmente “caldo”, ma nel quale l’inquietudine s’é rasserenata, stemperata, come se una sorta di pace interiore avesse domato il demone della sua prima maturità.

Raro tra i rari, Salvatore Paolino mi ha sempre ricordato, nella sua silenziosa meditazione sulla luce e sulla natura, più un miniaturista benedettino che un naturalista tout-court. Fuori dal nostro tempo, immerso in una campagna sospesa fra il mare sterminato, l’infinito del cielo ed una terra arsa dal sole, fra carrubi ed il canto ipnotico di infinite cicale, Paolino scruta l’infinito alla ricerca di un mistero che lo sovrasta e che forse nemmeno lui sa riconoscere col silenzio dello sguardo.

La nostalgia è una componente essenziale dell’anima siciliana, come la luce, l’ombra, il desiderio e l’oblio. Giuseppe Colombo sintetizza tutti questi elementi in una pittura ed in un disegno sempre sull’orlo del baratro dell’assoluto. In Colombo il concetto di “Tradizione del Nuovo”, così tipico della più autentica storia dell’arte italiana e così fondamentale nella poetica del Gruppo, si manifesta con solidità granitica, con espressività infinita e mai manierata, talmente intensa da fugare ogni tentazione di virtuosismo.

Giuseppe Puglisi e Piero Zuccaro rappresentano un caso emblematico, ed in qualche modo assimilabile ai maestri dioscuri Guccione e Sarnari. Non tanto per la diversa temperatura espressiva, quanto piuttosto per la modalità attraverso la quale questa si esprime. All’infinito di Puglisi corrisponde l’intimità quasi impressionista di Zuccaro; alla delicata, poetica, ideale e seducente iconicità del primo corrisponde la sensuale, sontuosa, solida e severa, eppure altrettanto evocativa e seducente, materia pittorica del secondo.

Mi piace concludere con una citazione dal “Gattopardo” di Giuseppe Tomasi di Lampedusa che trovo perfettamente calzante anche riguardo la poetica e l’espressività che stanno nell’anima dei fratelli del Gruppo di Scicli: “Tutte le manifestazioni siciliane sono manifestazioni oniriche, anche le più violente: la nostra sensualità è desiderio di oblio, le schioppettate e le coltellate nostre, desiderio di morte; desiderio di immobilità voluttuosa, cioè ancora di morte, la nostra pigrizia, i nostri sorbetti di scorsonera o di cannella; il nostro aspetto meditativo è quello del nulla che voglia scrutare gli enigmi del nirvana”.

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